Quello degli universitari italiani che, una volta terminato il proprio ciclo di studi, decidono di intraprendere la carriera universitaria diventando ricercatori e poi si ritrovano a dover fare i conti con una realtà che li costringe ad uscire fuori dai confini nazionali per riuscire a veder riconosciute le proprie competenze, è un fenomeno che ha assunto delle proporzioni tali che ormai risulta difficile anche trovare un aggettivo in grado di descriverlo adeguatamente. Alcuni parlano di “fuga di cervelli”, altri ancora di “esodo”. Quello che è certo è che guardando i numeri del periodo che va dal 2005 al 2015 non si può che provare una forte preoccupazione per lo stato della ricerca negli atenei nostrani, che se unito alle altre notizie sul lavoro che arrivano quotidianamente rendono il futuro del Paese poco roseo.
Facciamo un esempio citando uno studente appena laureato con ottimi voti che ha deciso di seguire uno o più corsi post laurea come ad esempio questi, per cercare di avere più conoscenze e facilitarsi l’ingresso nel mondo del lavoro. Ebbene, se si prova a fare ricerca fra le offerte lavorative che troviamo dentro i confini del nostro Belpaese, sono molti gli annunci che chiedono persone sotto i 25 anni, quindi siamo “fuori tempo massimo” per chi si è laureato e ulteriormente specializzato. Si propongono contratti di apprendistato, attuabili fino al compimento dei 29 anni, il compenso non rispetta i livelli di preparazione richiesti. Certo non tutte le richieste lavorative rispettano queste caratteristiche appena elencate, ma possiamo dire siano la maggioranza.
Discorso analogo se si parla dei ricercatori universitari. Per capire quanto appena detto basta pensare al fatto che su 100 ricercatori con un contratto precario sono 93 quelli che il sistema universitario italiano si è lasciato sfuggire senza metaforicamente muovere un dito, lasciando che andassero in atenei esteri o cambiassero totalmente il proprio progetto di vita, lasciando comunque il Belpaese ma con esso anche la ricerca. Se a questo dato statistico si affianca quello del blocco del “turnover” nell’anno appena passato, ecco che il dato di persone che sono state costrette ad abbandonare l’ambiente universitario sale a 2183.
Altro dato allarmante è il fatto che agli oltre 2300 pensionamenti che hanno avuto luogo in questi mesi sono seguite le immissioni nel ruolo di ricercatori di tipologia “b”, ovvero quelli che dopo 36 mesi possono essere inseriti nell’organico d’ateneo in pianta stabile, di sole 141 persone.
Va poi posto l’accento sul fatto che nell’arco del periodo compreso tra il 2004 e il 2014 vi è stata una vera e propria esplosione dei contratti precari, che sono più che raddoppiati, passando dai 6000 del 2004 ai più di 14000 dell’anno appena passato. E la Legge di Stabilità 2015 non porrà rimedio a questa situazione e anzi, potrebbe addirittura peggiorarla, visto che al suo interno è stata inserita una norma che cancella quanto statuito dalla “riforma Gelmini”, ovvero l’obbligo di contrattualizzare come ricercatori di “tipo b” alcuni ricercatori nel momento in cui per un docente sia arrivata l’ora del pensionamento. Come se non bastasse alla fine di quest’anno andranno in scadenza gli assegni di ricerca della durata di 48 mesi e non soggetti a rinnovo.
Insomma, la situazione dell’università italiana, con cali che interessano non solo docenti e ricercatori ma anche le iscrizioni ai corsi di laurea, è davvero preoccupante e appare destinata a peggiorare se si considera che la politica e il mondo economico sembrano non aver compreso come un sistema universitario funzionante sia fondamentale per la ripresa economica dell’Italia.
E le parole di Valentina Bazzarin, trentaquattrenne che ha intrapreso la strada della ricerca dopo la laurea in Scienze Politiche, che in un’intervista ha affermato di non poterne più di considerarsi come facente parte di una specie in via d’estinzione, e di desiderare non complimenti ma azioni concrete perché chi fa ricerca in Italia possa mettere al servizio del proprio paese le proprie conoscenze e competenze senza essere costretto a prendere un biglietto di sola andata per l’estero, rappresentano bene lo stato d’animo dei ricercatori che lavorano nelle università italiane e che si sentono abbandonati e bistrattati dal proprio paese.