Mi chiedo: sono forse prolisso?
Mi hanno detto che se i miei articoli fossero più brevi molte più persone li leggerebbero. Cioè, più persone leggerebbero cose che non ho scritto. Sviluppando questa promettente funzione, se non scrivessi nulla i miei lettori sarebbero infiniti. Voglio pensarci su, prima di prendere una decisione. Ma poi, cos’è la prolissità? Nient’altro che il rapporto tra caratteri impiegati e informazioni rese.
Per esempio, una lavagnata di formule, una poesia, uno spartito non sono mai prolissi perché ogni carattere reca un’informazione.
Invece, un discorso inaugurale lo è sempre. Però non è che puoi dire: “Bene, da domani apriamo” e andartene, perché il messaggio è la solennità. Così per un romanzo: mica vai subito all’ultima pagina per sapere se Renzo e Lucia alla fine si sono sposati. Il messaggio è vivere l’emozione del racconto. Oppure le due amiche che si salutano, dopo una mattina passata insieme al bar e poi, appena a casa, si telefonano e stanno botte di mezz’ora a chiacchierare. Il messaggio è avere compagnia mentre si gira il sugo.
Però mi sa lo stesso che sono prolisso. Viceversa, sono sinteticissimo e parco nelle email, specie in quelle che non invio. In azienda, quando avevo bisogno di comunicare qualcosa, mi alzavo e andavo a parlare con l’interessato, evitando di seviziare cinquanta innocenti, mettendoli in copia.
E c’è dell’altro.
Non si direbbe nel sentirmi parlare ma ho un trascorso da conferenziere. Ero bravo. Mi limitavo all’essenziale, sapevo attirare l’interesse dell’audience e, d’istinto, quando scorgevo quello davanti a me che iniziava a guardare le pareti, m’inventavo subito qualcosa per evitare la pericolosa transizione verso lo sbadiglio.
Nondimeno, ne ho visti tanti di parlatori di professione trascurare questi segnali di allarme e andare avanti imperterriti. Fino a indurre quel temutissimo e catastrofico fenomeno che è la narcolessia difensiva, manifestantesi con perdita di tono dei muscoli del collo, caduta del capo all’indietro, puntamento in alto del cratere orale e russamento tellurico. Amplificato dal silenzio ovino del pubblico.
La morte civile di ogni oratore.
Ma davvero sono prolisso?
Consideriamo un altro punto di vista: il disturbo dell’attenzione, di cui soffriamo tutti, a cominciare da me.
Per non tirare notte al lavoro, opero in multitasking: guardo un esame mentre rispondo ad un messaggio mentre stampo una ricetta. Intanto due telefoni mi squillano contemporaneamente. La burocrazia ci mette del suo, facendomi fare due volte la stessa cosa, e inviandomi delibere chilometriche e linee guida di cento pagine che potrebbero essere riassunte in due diagrammi.
Gestisco il flusso di informazioni in entrata con un sistema di rimozione forzata: ciò che non riesco a completare in cinque minuti, va al deposito. Naturalmente, quando è il caso, stacco tutto e ascolto il paziente, perché ciò che egli mi racconta, come una formula chimica, è essenziale in ogni dettaglio.
Però ho perso il gusto del ridondante, di quello che non serve ma è bello, e del complesso.
Mi dispiace ma è così. Se la trama di un film si fa complicata, mi perdo e devo a andare a rileggermi la storia su internet. Forse non sarei capace di rileggere “Guerra e Pace”, figuriamoci Proust.
Ritengo che questo sia un grosso problema del nostro tempo.
Credere cioè che il rock sia più figo del lento (ma come fai a scegliere un partner se non ci fai il ballo della mattonella?). Credere che la tattica sia più importante della strategia. Che fare due cose sia meglio che farne una. Che la velocità sia un valore assoluto. E che il succo sia meglio del frutto intero (specie se questo ha la buccia).
Insomma, chi ha detto che perdere tempo faccia effettivamente perdere tempo?
Comunque, ai lettori che sono saltati direttamente a queste ultime righe perché non ce l’hanno fatta a leggere il resto, voglio dire che non si sono persi niente.
Rispetto il loro amore per la sintesi e gliela sbrigo in due parole: l’assassino era il maggiordomo.
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