Dicono che questi episodi di violenza sulle donne sono frutto della cultura patriarcale e, sui giornaloni, personaggi illustri procedono verso l’autodafè, autoflagellandosi e scusandosi per essere nati maschi.
Io non sono d’accordo e, quel che conta, questa ipocrita pantomima non aiuta la causa.
Io sono cresciuto in una famiglia patriarcale
Mio padre portava a casa lo stipendio e aveva l’ultima parola su tutto. Sbuffava quando mia madre, con lo spirito pratico e diffidente della casalinga vissuta, frenava i suoi eccessi di entusiasmo. Ma poi ci rifletteva su e l’ascoltava.
Pur avendone passate di difficoltà, non sapeva cuocersi un uovo fritto né rifarsi il letto; men che meno stirarsi una camicia. Non era nelle sue corde. Tuttavia non escludo che, con una prolungata applicazione ed un numero adeguato di tentativi, sarebbe riuscito a praticare tali abilità. Mio padre non rideva alle barzellette sessiste e in casa non giravano parolacce né battute volgari.
Non ricordo mi abbia mai dato uno schiaffo, ma aveva lo sguardo e il tono giusti quando era il caso di darmi una raddrizzata.
Le ciambellate, in compenso, me le dava mia madre, in una saggia divisione dei compiti: le botte di una madre fanno male al fisico ma non allo spirito. Nei diversi ruoli, c’era un certo, reciproco, rispetto. Cionondimeno, il maschilismo veniva fuori, imprevedibile e a tratti, come un fenomeno vulcanico che trae alimento dal profondo. Tipo quando mio padre andava alle riunioni di partito dedicate alla questione femminile senza dire niente alla moglie, né in questo cogliendo alcuna contraddizione.
Una volta, con quella accezione impropria che i bambini danno ai termini appena imparati, risposi a mia madre dandole della ‘strega’. Partì, allora sì, uno schiaffo, della sottospecie che da noi chiamiamo ‘leccamusso’, del quale, più che il pur ragguardevole effetto sonoro, mi colpì la tempistica. Praticamente simultaneo, come a dire: “Sappi che, se ci riprovi, non ci sarà nemmeno il tempo di una riflessione, ma la reazione partirà in automatico”. Un fenomeno analogo, sempre per incertezza lessicale, ci fu quando diedi della ‘serva’ alla signora che aiutava nelle pulizie. Magari non è stato per quello, ma, in seguito, non mi è mai venuto in mente di usare frasi o gesti men che educati di fronte ad una donna.
Per cui mi sono convinto che alla base di certi episodi ci sia un grosso lavoro non fatto: nelle mura domestiche, oltre e prima che sui media.
Non so se quelle famiglie della mia generazione, tutte patriarcali, almeno nella vetrina, possano essere citate come paradigma di buona educazione. Certo è che noi ragazzi di allora, prima o poi, per una buona metà siamo passati dallo psicologo, ché la cultura paternalistica non è un ballo di gala per un maschietto. Irrequieti, complessati, sì, ma violenti o volgari, no. E, allora, cosa sta succedendo oggi?
Forse è la volgarità verbale, che oggi è dappertutto, a portare, ineluttabilmente, alla volgarità dei sentimenti.
Forse è per via dei sentimenti che non vengono più insegnati che poi i ragazzi si trovano con delle pulsioni cui non riescono a dare un nome né un ordine. O forse è per via della mancanza di curiosità per il diverso da sé, che diventa non oggetto interessante da indagare ma preda da consumare.
Oppure è semplicemente la scomparsa dei padri e delle madri, incapaci di operare quelle potature e concimazioni che un figlio richiede.
Incapaci di dire ‘no’ e messi in secondo piano dal quel Grande Diseducatore che è il web.
E intanto che aspettiamo, dopo gli autodafè, delle analisi serie, riconsidererei i leccamussi. Prima che, cari genitori, il rampollo non vi diventi troppo alto per la portata della vostra mano e la rampolla troppo sbrigliata da non poterle chiedere ‘dove vai – con chi vai – a che ora torni’.
Ho detto tutte cose ovvie e retoriche e il caso richiede ben altra spiegazione.
Cui sto lavorando. Non cambiate canale.