Rosina, ottantaseienne, assiste da dieci anni il marito semiallettato. Mentre completo la mia visita, si parla del più e del meno e, ad un certo punto, Rosina dice: “Dotto’… noi abbiamo lavorato sempre”.
Vabbò, penso; ma mentre scendo le scale le parole mi risuonano. Che vuol dire ‘ho lavorato sempre’?
Intanto realizzo che c’è una sfumatura diversa, rispetto all’apparentemente simile ‘ho sempre lavorato’ e mi vengono alla mente immagini di famiglia. Perchè ‘lavorare sempre’ significa aiutare quando si è bambini, poi imparare un mestiere a quattordici anni, poi un lavoretto regolare a venti, con malattia, contributi e ferie, ma andare la domenica a fare qualcosina in nero da un amico, e intanto aggiustare il giardino o mettere su i mattoni della casetta o cucinare e lavare. Con tutto questo, fare anche dei figli e crescerli.
“Lavorare sempre” è diverso da “ho sempre lavorato”
Come mia madre, come le mie zie, come mio padre, che non è quasi mai andato in vacanza. Come me, accidenti!
“Ma come, sempre al chiodo. Guarda che c’è altro nella vita…”.
Lo so: ma questo ‘altro’ è nel lavoro. Avere a che fare con gli altri, imparare, crescere, vedersi agire, scoprire le proprie capacità e incapacità. Fare esperienza e ricavarne dei ragionamenti. A che mi serve una vacanza?
Ma oramai sono di un’altra generazione e forse non capisco il mondo attuale.
In effetti, il lavoro era diverso, anzi, era diversa la cultura del lavoro. Concepito come mezzo di puro sostentamento, si veniva al mondo introiettando con gli esempi della vita quotidiana la maledizione della fatica. Ma poi, in qualche modo, se ne usciva, scoprendo la fiducia nelle proprie risorse. E perciò Pippetto, nostro amico che faceva il barista quando noi andavamo al liceo, un giorno mi disse (anche lui): “A me il lavoro non spaventa… io ho lavorato sempre”.
Nel tempo, Pippetto ha visto che, oltre che sostentamento, il lavoro procurava l’utile e perfino l’inutile.
Ecco i lavoretti della domenica. Non solo. La consapevolezza che tutto usciva dal suo sudore e dalle sue mani gli dava una sicurezza e un orgoglio che, da grande, l’avrebbe portato in piazza a pretendere delle cose. Tipo un Statuto dei Lavoratori o una Riforma Sanitaria.
Oggi Pippetto è pensionato.
Pensionato da molti anni, da quando ne aveva cinquantotto, e questo a qualcuno può sembrare un lusso. Pippetto, a volte, si indigna troppo per i servizi che peggiorano e sembra volere chissà cosa. Ma io lo so il perché. È perché, di quel poco che ora ha, nessuno gli ha mai regalato nulla. Nelle sue mani rovinate e nell’artrosi che io gli curo c’è la storia delle sue domeniche e delle sue lotte.
A molte persone, oggi, capita di lavorare la domenica, non per guadagnarsi l’inutile ma per obbligo globalista o per il bisogno di superfluo: la vecchia maledizione della fatica, rientrata dalla finestra. E, per una volta, non mi sento di praticare quello sport che mi piace tanto e che consiste nel dire male a partiti e sindacati.
No, perchè è responsabilità personale quella di avere consapevolezza della propria fatica e pretendere il corrispettivo in diritti.
Oggi non ci si iscrive al sindacato perché, tanto, che può fare. Però si può sempre autoconvocarsi sui social e trovarsi a protestare davanti ai palazzi del Potere. Mostrando a Lorsignori le palme delle mani con i calli.
‘Lavorare sempre’.
Io sogno un mondo nel quale il lavoro non sarà più necessario. Ma l’obiettivo non è a portata di mano.
Dispiace, ragazzi; mi sa che c’è da lavorarci un po’…
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