Sono al bar che sorseggio la bevanda più dannosa in questo periodo: un aperitivo.
Al tavolino accanto si svolge la seguente scena: una donna imbocca con un cucchiaio una bimba di qualche mese nel passeggino, mentre una seconda donna le tiene davanti agli occhi, ben posizionato, un cellulare.
Noto e rifletto.
Dopo un attimo di giustificato sgomento, mi dico che non sta succedendo niente di che. Inutile stare a fare filosofie: può essere semplicemente che la bimba mangi più volentieri se si distrae con un video. Perché volere ad ogni costo vedere il male nelle cose? Sì, ma anche così non va bene. Il pasto è un momento di crescita.
Scaccio altri pensieri malevoli e cerco di figurarmi quello che sta succedendo nel cervello in formazione della bimba.
Esaminiamo ed ipotizziamo.
“Ho delle persone accanto che mi pare di conoscere. Da qualche parte mi sta arrivando del cibo mentre una mano adulta mi tiene davanti uno schermo, dove scorrono immagini in una successione che non capisco. Ecco, da questo insieme di impressioni cerco significati e creo collegamenti che dureranno tutta la vita”.
E se fossero collegamenti sbagliati?
L’autismo è una patologia in forte aumento e non si sa perché.
Essa è caratterizzata da:
1 – compromissione qualitativa dell’interazione sociale.
2 – compromissione qualitativa della comunicazione verbale e non verbale.
3 – modalità di comportamento, interessi e attività ristretti, ripetitivi e stereotipati.
In genere si ritiene che si tratti di un aumento apparente, dovuto solo all’affinamento delle tecniche diagnostiche. Prima c’era ma non si sapeva, dicono. Io, infatti, non mi ero mai accorto di avere tanti bambini autistici tra i miei amichetti. Se me l’avessero detto, magari ci avrei fatto caso.
Ora, la scena del bar non so quanto si possa applicare, ma se volessi creare un disturbo autistico in laboratorio credo che prenderei in considerazione lo schema adottato dalle due donne.
L’aperitivo mi sta andando di traverso.
Cerco di volgere lo sguardo altrove, mentre mi monta un disagio, e la mente va ad altre scene del genere, con bambini poco più che lattanti col cellulare in mano. Nell’età nella quale si forma la differenziazione tra il sé e l’altro. Chi è l’altro? E io, chi sono?
Mi alzo e mi allontano, mentre il disagio cresce. Dovrei farmelo passare perché, mi ripeto, è solo frutto della mia indole nebbiosa. Ma forse, invece, dovrei dire qualcosa a quelle donne. Dovrei intervenire. Forse quella bimba ha bisogno d’aiuto ed io, adulto, sto ignorando il suo grido silenzioso e inconsapevole.
Tuttavia, una cosa mi frena.
Non è come separare due che si azzuffano. I quali, si sa, lo hanno fatto in preda a un raptus e, appena separati, tornerebbero da soli ad una sana ragionevolezza.
No, qui c’è altro. Qui la distanza tra la consapevolezza che hanno le due donne di quello che stanno facendo ed il buon senso è troppa: da dove potrei mai cominciare?
E c’è anche un altro motivo. Non ho mai risolto il dilemma se con i figli sia meglio avere un piglio da educatore severo o da complice bonario, per cui non so se sono il tipo più adatto a dare consigli a un altro genitore.
Sì, faccio bene a stare zitto, tanto più che sarebbe inutile. Perchè tra meno di un anno quella bimba sarà parcheggiata per ore davanti a un cartone giapponese e, poco dopo, inizierà a ricevere una mole sconsiderata di regali che si annoierà perfino a scartare.
Basta, lascio l’aperitivo e vado a pranzo, però…
Però i disturbi neuropsichiatrici dell’infanzia sono aumentati moltissimo negli ultimi cinquant’anni. Sicuro che la vista di adulti intorno, intenti a fissare un pezzo di vetro, tv, computer o cellulare, non abbia avuto (e non abbia) una qualche parte, se capita nel periodo durante il quale i piccoli cervelli si vanno strutturando?
Oggi ho pensieri gastroenterici e dovrei tenermi leggero. Addio piccola davanti al cellulare, per te spero tutto il meglio possibile.
Quanto a me, spero che un alka seltzer mi lenisca il senso di colpa per aver lasciato i tuoi neuroni assetati di senso, soli, davanti a uno Huawei privo di volto…
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