Il vecchio liutaio osserva la mia chitarra bisognosa di cure. La gira fra le mani e dice: “si può fare”. Meno male, penso. Poi aggiunge: “sappia però che quando io non ci sarò più, nessuno farà questo lavoro”.
Appena meno anziano (settantenne) è l’omino che mi pota gli ulivi. Ho dovuto prenotarmi un mese prima: è pieno di impegni. Alla fine, sei ore di lavoro calmo, all’aria aperta, gli fruttano sessanta euro (più dieci di mancia).
L’artigiano edile che mi fa manutenzione a casa non potrei propriamente definirlo così: troppo riduttivo. In realtà è capace di tirar su una casa da solo, compresi gli impianti idraulico ed elettrico, che può anche certificare. Da solo! Non hai un aiuto? No, non trovo nessuno.
Bene, siccome tre indizi non sempre fanno una prova, vado avanti.
Il mio amico agronomo, che chiama le piante col nome latino, che sa di amministrazione, di leggi, di didattica, di innovazione tecnologica e, non scontato, sa coltivare benissimo la campagna, si cruccia perché non ha nessuno cui passare le sue conoscenze.
Ok, ora ho abbastanza elementi per scomodare un trito luogo comune: il lavoro c’è e sono i giovani che non hanno voglia.
Ma non è così. Perché i giovani finiscono per accettare lavori veramente pesanti e vengono sfruttati senza remore. Il problema è da un’altra parte.
Forse esistono due mondi che non comunicano. Quando sento dire che bisogna far incontrare la domanda con l’offerta e poi vedo come risposta le agenzie per l’occupazione, avverto un’insopportabile puzza di muffa, oltre che un sottile retrogusto di fregatura.
Semmai, se un ragazzo non si guadagna la serata in discoteca con una potatura, o aggiustando qualche strumento, è perché non si guarda abbastanza intorno. Qualche aspetto del mondo non gli è visibile. Una sorta di miopia per il possibile. Ma c’è anche un’altra cosa. Un fossato culturale che, prima o poi, bisognerà saltare.
Si sono riempiti scaffali sul Diritto del Lavoro, per determinare cioè cosa sia lecito e cosa no per il lavoratore e per il suo capo.
Si sono versati fiumi d’inchiostro sull’Etica del Lavoro, per stabilire cioè cosa sia giusto e cosa no nelle relazioni tra produttori. Il risultato di tanto impegno speculativo è uno strisciante ritorno allo schiavismo, un sistema che si riproduce spontaneamente come una flora batterica, che di buono ha di non aver bisogno di raffinatezze teoriche per sostenersi. Però non va bene.
Allora, forse, è tempo di dedicarsi ad una Estetica del Lavoro, per capire cioè cosa bisogna fare perché un lavoro sia bello e piacevole.
Tanto per cominciare, farei un’opera di maquillage: via il termine “lavoro” da tutti i testi e i cartelli segnaletici, e sua sostituzione con il termine “attività”. “Lavoro” è sviante: ci sono tante persone che hanno un lavoro e sono inattive. E poi è un termine pieno di accezioni negative: fatica, sfruttamento, bisogno, sottrazione di tempo. Invece, “attività” evoca la vita, la creatività, la salute. Non è solo un trucco: è sostanza.
Perché vuol dire che se con le tue mani o con la tua testa (magari con ambedue) modifichi l’esistente, nel senso che il dopo è meglio del prima, vivi e ti stai divertendo. E se tanti modificano l’esistente, questo crea ricchezza e reddito. Cos’è il PIL se non il frutto di una modificazione dell’esistente?
E qui, se vogliamo strafare, c’è spazio anche per un Erotismo del Lavoro.
Cioè il piacere fisico, l’eccitazione di vedere un compito fatto bene. Quale? Anche tagliare una siepe. Tagliata bene! Senza dimenticare quella bellissima forma d’amore che lega l’allievo al maestro.
Insomma, ragazzi, per questo non serve una legge; solo recuperare la visione del possibile e del potere incredibile delle proprie mani. E magari, un domani, ripenserete con sarcastica superiorità ai tempi di barbarie, di quando la gente ancora voleva andare in ferie.
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