Io sono un àpota
Io sono un àpota. Cioè uno che non se la beve. O che, per lo meno, ci prova.
Sicché mi muovo con estrema circospezione tra le frottole che cercano di servirmi in tutti i modi, sotto forma di bevande le più varie. Che so, tisane rilassanti di prima serata, bibite stimolanti di talk show, frizzantini di spot pubblicitari e pericolosissimi, accattivanti rosòli di cronaca vera, dal rassicurante aroma casalingo.
Il più spesso sono bevande semplici, di immediata digeribilità, tipo quella della crema che toglie il 73% delle rughe (com’è fatto un contarughe?). O l’altra, della medicina che arriva all’articolazione senza passare per lo stomaco (magari superando quella mezza dozzina di barriere anatomiche col passaporto diplomatico).
Poi ci sono le bevande con un retrogusto indefinibile, che le trattieni un po’, prima di lasciarti convincere. Tipo il servizio col bimbo denutrito che, a meno non si sia fatto un selfie, ti chiedi come mai nessuno della troupe gli dia metà del suo panino. Questione di tempo, poi queste le si ingoia comunque, perché tenerle in bocca più di tanto non si può.
Talora, invece, quelli serviti sono dei cocktail di complessa composizione, miscelati da professionisti e shakerati a lungo, affinché nemmeno il palato più esperto ne distingua gli ingredienti. È il caso delle guerre o delle analisi economiche che ti dimostrano che, se sei diventato povero, pur lavorando tanto e rinunciando a tutto, è perché vivi al di sopra delle tue possibilità e sei restio a fare i dovuti sacrifici.
Non ricordo quando io sono diventato un àpota
Non ricordo bene quando sono diventato àpota, però ne ricordo il motivo. Ad un certo punto, ho cominciato a star male fin dal mattino. Dopo il primo giornale radio, quello della rasatura, ero già ubriaco. Il mio fisico non smaltiva più le balle del giorno prima.
Andavo a lavorare con disagio perché lì, sul lavoro, le cose andavano diversamente: c’era un mal di schiena, che accordava con una lastra, e questa con una condizione, e questa con un meccanismo, Insomma: un ragionamento finale teneva tutto insieme, logicamente.
Come mai nella vita le cose non erano tanto lineari?
Non potevo essere ubriaco sul lavoro, col rischio di propinare anche io qualche panzana da mandar giù ai miei pazienti. Dovevo scegliere la logica. E smisi di bere.
Riacquistando quel tanto di lucidità, e un minimo di metodo, ho iniziato a vedere il mondo in modo diverso.
Il cielo, per esempio, è pieno di palloncini colorati; bufale leggere, che viaggiano portate dal vento, e toccano i cinque continenti in men che non si dica.
E le strade… piene di bevitori incalliti; tronfi, col naso rubizzo e le convinzioni ferree; oppure ripiegati su se stessi, intristiti da paure millenaristiche, causate da contatti ripetuti coi tg, senza mezzi di protezione.
L’àpota, lo sa, è votato alla solitudine. E, infatti, io mi vedo con pochi amici, astemi quanto me, in qualche locale dove assistiamo all’andirivieni di camerieri, su e giù a servire bicchierini spumeggianti a gente apparentemente felice e spensierata. Mentre noi siamo lì, mesti e pensosi, con la nostra porzione di acqua liscia davanti, e la conversazione che fa fatica a partire. E, del resto, quando parte, si ammoscia subito nella constatazione che non c’è più nulla da dire bensì da fare, e che noi non ne abbiamo la forza.
Allora ci richiudiamo nella magra soddisfazione della resistenza, e nell’orgoglio di non cedere mai alle tentazioni.
Che sono tante e continue. Ora, per dire, c’è un politico che mi sta offrendo, con molta partecipazione empatica, un drink di nuova formula, con dentro la promessa che, se mai vincesse le elezioni, mi aumenterebbe la pensione. (dove l’ho già sentita?)
Però, sapete cosa? Non si può stare sempre ad acqua liscia. Non è vita. Dopo tanta sobrietà, vorrei concedermi un cicchetto pure io. Per cui va a finire che, alle prossime elezioni, mi sbornio e il voto lo regalo a chi mi offre il calice più inebriante. Un cicchetto solo, ma ho un po’ paura.
Hai visto mai che ci provo gusto e mi rimetto in collo la scimmia dei tg di prima sera?
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