Dice: “Come stai?”, ma nessuno che mi chieda: “Sei felice?”.
Ovvio: è una domanda da brivido.
Le tre felicità dei Greci
I Greci distinguevano almeno tre tipi di felicità:
• la macarìa (beatitudine, pienezza di spirito)
• la eudaimonia (buona indole e coscienza a posto)
• l’eutichia (la buona sorte – “Scala con quattro carte? Ammazza che eutichia che hai…”).
Quanto sopra, in estrema sintesi, per dire due cose: i Greci parlavano della felicità spesso e volentieri e ritenevano valesse la pena parlarne perché pensavano che fosse alla portata dell’Uomo.
Persino Sisifo, condannato dagli Dei ad un supplizio consistente nel trasportare un masso sopra a una montagna per vederlo di nuovo rotolare giù una volta giunto sulla cima, è immaginato felice dallo scrittore Albert Camus. Perché, in quella fatica, ci sono l’orgoglio della sfida al cielo, la sconfinata fiducia nelle proprie possibilità e la sicurezza derivante dall’appartenenza al genere umano.
Io non so se Sisifo sia propriamente di buonumore (in questo momento dovrebbe essere ancora al lavoro) ma una cosa si può dire: preferisce tentare contro ogni speranza piuttosto che sedersi depresso sul proprio masso.
Forse abbiamo un problema
Certo è che oggi, con le possibilità che abbiamo, essere felici dipende da noi stessi quanto mai prima nella storia dell’umanità. Invece, abbiamo il prozac nell’acqua da bere, fino a ieri inquinata solo dalla più salubre atrazina, e si moltiplicano i disturbi psicologici tra i giovani.
Forse abbiamo un problema.
Potremmo risolvere il problema ambientale, costruire la pace sociale, organizzare città dove sia talmente bello vivere che uno se ne andrebbe in vacanza in centro. Invece di fuggirne, armi e bagagli, alle tre del mattino come un evacuato. Potremmo, ma non lo facciamo. Restandocene, di fronte alle difficoltà e ai disastri annunciati, fermi e stolidi, con l’espressione di buoi sdraiati sui binari. Ansiosi per l’arrivo del treno ma sostanzialmente immobili. Potremmo scansarci e invece restiamo, sperando che qualcuno ci salvi intanto che ruminiamo antidepressivi e ansiolitici. Che ci sia del metodo in questa follia?
Certo che c’è.
La felicità sostituita dalla soddisfazione
È in azione, da molto tempo, a turni continuati, una fabbrica della infelicità, e questo è un bene per l’economia, la quale, appunto, proprio su quella si regge. Funziona così.
Innanzitutto bisogna sostituire, nelle menti, l’idea di felicità con quella di soddisfazione. La prima è complicata: ti devi conoscere, devi aver sofferto, occorre un minimo di cultura e, soprattutto, ci devi lavorare. La soddisfazione è immediata, semplice, comprensibile e a portata di mano. Tutte e due durano poco ma la soddisfazione la trovi al primo supermercato perché, e questo non è poco, è vendibile. Specie se hai preparato bene la tua campagna di marketing.
Però non basta.
L’infelicità sostituita con il disagio
Per evitare che a qualcuno venga in mente l’insana idea di provare ad essere felice, gli devi confondere le idee. Per cui l’infelicità non è più quella cosa che ti occupa la mente e ti spinge a cercare una strada, dopo aver capito cosa vuoi veramente, ma diventa ‘disagio’. Cioè quella cosa che non ti fa star bene epperò non sai bene perché e, soprattutto, non sai esprimere. Per aiutarti e non farti scervellare troppo, il sistema ti viene incontro, suggerendoti un campionario di buone ragioni per star male: l’effetto serra, il collasso dell’INPS, la pandemia e una serie di altri flagelli, dispensati a dosi quotidiane dai tg. E presentate non come problemi su cui lavorare, ma come maledizioni in arrivo contro le quali non c’è riparo. Né rimedio.
L’esaltazione dell’individualismo
Segue l’esaltazione dell’individualismo, con il culto della giovinezza e della prestanza fisica (due investimenti a perdere), e la svalorizzazione dei mezzi sociali di conforto (famiglia, amicizia, filosofia, religione). In modo che da giovane ti senti già un po’ vecchio, e da vecchio ti senti (anzi, sei) solo.
Infine, per chiudere il cerchio, quando proprio non ne puoi più, far passare il tuo disagio per malattia. Per la quale i rimedi ci sono, e come! pronti nella farmacia all’angolo (‘vai a vedere… dovrebbe essere ancora aperta’).
Ma scordavo una cosa.
Cioè l’eventualità di quello proprio irriducibile che, pur di non soffrire, si rifugia nel sogno ad occhi aperti. Per ora, ochei, sul divano, ma metti che domani ci studia su e diventa un rivoluzionario? Per cui bisogna uccidere l’utopia nella culla con iniezioni, anche queste quotidiane, di concretezza. Fino a che la concretezza non diventa un un’armatura di cemento e ti convinci che ogni sforzo è inutile e ogni speranza folle.
La felicità non ha bisogno del “Potere”
A questo punto è lecito chiedersi perché tanta fatica e tanto impegno per edificare questo sistema anti-felicità.
Beh, l’uomo felice rispetta il Potere ma non ne prova soggezione. E, soprattutto, non ne ha bisogno. E questo, per Lor Signori, è un problema, come si dice, non di poco conto.
Per cui, sì. Quando mi incontrate, chiedetemi se sono felice. Ma vi avverto: non sarà una conversazione breve.
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