Il codice manoscritto più antico che possediamo de L’Acerba, risalente alla seconda metà del XIV secolo, è conservato a
Firenze, nella Biblioteca Medicea Laurenziana, città dove Francesco Stabili morì.
L’Acerba è un poema allegorico in sesta rima redatto in volgare e rimasto incompiuto al Canto V perché poco dopo l’inizio della stesura Cecco venne condannato al rogo come eretico. Correva l’anno 1327.
Il titolo de L’Acerba: cosa significa?
Opera controversa, a partire dal titolo: c’è chi crede che si riferisca alla durezza dello stile impiegato, chi sostiene che derivi da acervus (= mucchio di molte cose messe insieme); altri critici hanno ipotizzato che sia un’allusione all’asprezza e alla crudezza di carattere dell’autore stesso e dei problemi della scienza, o alla sua età acerba, ossia giovanile. Infine, altri hanno letto nel titolo un riferimento alla cerva, animale mistico caro ai fedeli d’amore nel quale il poeta figurerebbe sé stesso.
I temi de L’Acerba
Nel poema vengono trattate svariate questioni: dalle caratteristiche proprie dell’uomo e dell’animo umano a quelle degli elementi naturali e animali, in una mescolanza di credenze di stampo scientifico e fantastico, scomodando questioni
linguistiche e filologiche e interrogativi di matrice squisitamente letteraria, filosofica e teologica.
Il mondo è considerato da Cecco creazione divina governabile dall’uomo, anche se retto da forze misteriose e potenzialmente oscure, come l’influenza dei pianeti. Gianfranco Contini, uno dei più grandi critici letterari dello scorso secolo, ha definito L’Acerba “l’anti Commedia” dantesca: nella sua trattazione, infatti, Cecco non risparmia sferzate polemiche contro il Sommo Poeta:
Qui non se canta al modo de le rane;
Qui non se canta al modo del poeta,
Che finge, imaginando cose vane.
Ma qui resplende e luce onne natura,
Che a chi intende fa la mente leta.
Qui non se gira per la selva obscura;
Qui non veggio Paulo né Francesca;
De li Manfredi non veggio Alberigo,
Che diè l’amari fructi ne la dolce esca;
Ironicamente, e con il piglio dell’uomo di scienza, Cecco d’Ascoli demolisce tutta la fantasiosa realtà creata da Dante Alighieri nella sua opera maggiore, deridendo questo mondo, frutto dell’invenzione poetica, insieme ai personaggi che lo popolano (due su tutti, i famosi Paolo e Francesca del Canto V dell’Inferno): Lasso le ciance e torno su nel vero, / Le fabule me furon sempre nimiche.
Cecco d’Ascoli e il legame con la sua città natale
Cecco, fautore della libertà di coscienza e del libero arbitrio umano, procede con la sua opera nell’esposizione, quasi enciclopedica, di tutto lo scibile della sua epoca; sicuramente, il poema è aspro (così come il titolo suggerisce), ma crea dei momenti di grande lirismo, specie quando l’autore ricorda la terra e la città natale, le sue tradizioni e le sue leggende, vibrando di indignazione a volte per lo stato in cui verte e rammaricandosi per la sua sorte:
O bel paese con li dolci colli,
Perché non cognosciti, o genti acerbe.
Con l’atti avari invidiosi e folli?
Io pur te piango, dolce mio paese,
Che non so chi nel mondo te conserbe […]