Si parla molto di cannabis light in Italia ultimamente. La cosa non deve sorprendere dato che, come vedremo nelle prossime righe, si parla di un business di grande successo (e con un mercato potenziale cinque volte superiore rispetto a quello attualmente intercettato).
Non sempre, però, quando si argomenta di questo tema lo si fa con le giuste informazioni in merito al quadro legislativo. Nelle prossime righe, abbiamo non a caso riassunto alcune delle specifiche più importanti in merito.
Cannabis light legale: la Legge 242/2016
Quando si discute di cannabis light in Italia, il principale riferimento normativo è il Decreto Legge 242/2016, entrato in vigore nel gennaio dell’anno successivo. Questo testo normativo ha rivoluzionato il modo di approcciarsi alla cannabis light, introducendo delle novità significative relative in particolare alla coltivazione industriale.
Entrando nel vivo del testo, facciamo presente che i produttori hanno la possibilità di coltivare solamente le varietà certificate. In questa globalità troviamo, tra le tante opzioni, quella della cannabis sativa.
La legge in questione è nota soprattutto per le indicazioni relative al contenuto di THC, delle quali parleremo più tardi. Parlare di questo testo normativo, però, significa andare ben oltre.
Non dimentichiamo infatti che la Legge 242/2016 fornisce riferimenti anche rispetto ai prodotti che si possono ricavare dalla cannabis light. Tra questi è possibile citare gli alimenti, ma anche i cosmetici. In entrambi i casi, è necessario fare riferimento al disciplinare di produzione dei rispettivi settori.
Altri aspetti
Quando si parla del quadro normativo attualmente vigente per la cannabis light in Italia, è doveroso soffermarsi anche su altri obblighi del coltivatore. Tra questi, rientra il fatto di conservare per almeno 12 mesi i cartellini identificativi dei semi acquistati. Per quanto riguarda i semi, facciamo presente che possono essere prodotti solo da specifiche aziende.
Come sopra specificato, la caratteristica principale della cannabis light riguarda il basso contenuto di THC. Per legge, il principio attivo psicoattivo per eccellenza non deve superare lo 0,2. Dal momento che per i produttori non è facile mantenere questa soglia, ne è stata stabilita una di tolleranza pari allo 0,6%.
Negli anni successivi al 2017, il legislatore è più volte intervenuto in merito alla disciplina della cannabis light. Tra gli interventi in questione è possibile citare la circolare del MIPAAF del 2018, che ha ribadito i contenuti della Legge 242/2016.
Degna di nota è anche la circolare del Ministero dell’Interno risalenti all’estate del 2019. In questo testo, si invitano le forze dell’ordine a intensificare i controlli sui growshop.
Nei mesi più recenti, ha destato non poco scalpore il decreto emesso a inizio ottobre 2020 da parte del Ministro della Salute Roberto Speranza. Il testo in questione includeva il CBD o cannabidiolo, principio attivo privo di effetti psicoattivi, tra le sostanze stupefacenti.
Il suddetto decreto, che è stato accolto dagli operatori del settore come una potenziale mannaia sul loro business, è stato revocato. Quando lo si nomina, è bene fare presente che è arrivato a poca distanza di tempo da un’autodichiarazione inviata dall’Agenzia delle Dogane ai singoli titolari di tabaccherie, che venivano invitati a dichiarare di non trattare prodotti a base di cannabis.
Come già detto, il decreto che avrebbe secondo molti dato il colpo di grazia a un settore con un giro d’affari da 150 milioni all’anno e con 10mila occupati, è stato cancellato.
Il titolare del dicastero ha invitato l’Istituto Superiore di Sanità e il Consiglio Superiore di Sanità a esprimersi sull’argomento, rivalutando complessivamente le tabelle stupefacenti e, nello specifico, specificando se gli effetti del cannabidiolo sono soggetti a mutamenti a seconda delle dosi che il singolo utente assume.