Estate: tempo di sole e divertimento, di bagni al mare e di scampagnate in montagna, di gite culturali e di incontri con amici lontani. Tutto legittimo, specie dopo il difficile periodo che siamo stati costretti ad affrontare. Tuttavia, il virus non ci ha reso più buoni e consapevoli come molti speravano: continuano gli atti vandalici e ignominiosi a danno del nostro immenso patrimonio naturalistico e culturale.
Senza contare il “consueto” abbandono di oggetti in aree verdi e non, tra cui spuntano, quasi tragicamente, mascherine di qualsiasi tipo, e gli abbattimenti recenti di statue di matrice politica e sociale, si sono verificati atti vandalici, forse non intenzionali (il che denota inconsapevolezza ed ignoranza, aggravante come la buon’anima di Pasolini insegna) che hanno, ad esempio, portato una turista a salire sul tetto delle antiche terme di Pompei per scattarsi una foto oppure, sempre per testimoniare in qualche modo il nostro effimero passaggio, un altro a rendere non più tanto effimero il proprio, tentando di scattarsi anch’egli una foto ma rompendo l’alluce e altre due dita a un delicatissimo gesso di Canova raffigurante Paolina Bonaparte, sorella di Napoleone.
Nel Piceno cosa è successo?
L’incuria e la mancanza di consapevolezza non stanno risparmiando nemmeno il nostro territorio, e nello specifico il suo patrimonio antropologico e paesaggistico. Per esempio, circolano ormai da settimane le foto delle enormi frecce blu tracciate da un escursionista che voleva indicare il sentiero, forse per lui non avvezzo alla camminata non troppo evidente, nella zona del Monte Sibilla.
La Sibilla, in particolare, ha subito un ulteriore e grave sfregio, forse all’occhio più discreto del precedente ma enormemente più grave. Sì, perché il primo sottende ignoranza, incuria, mancanza di senso estetico, ma forse (o per lo meno, è bello pensarlo) è stato compiuto in buona fede, senza rendersi conto del danno. Su ciò che resta del vestibolo della leggendaria grotta, poco prima della cima del monte, rimane un’antica e ancora non del tutto chiara iscrizione, recitante (A)VP 1378. Tale incisione viene scoperta nell’estate del 1953 dalla spedizione guidata da Falzetti e Desonay. Filologi, critici e appassionati si sono sin da subito arrovellati per dare un senso a questa incisione alfanumerica: che si tratti della data d’inizio dello Scisma d’Occidente? Che sia la data di nascita di Christian Rosenkreuz, mitico fondatore dell’ordine esoterico iniziatico dei Rosacroce? Oppure, che sia stata incisa dal cavaliere tedesco di cui parla Antoine De La Sale nel Paradiso della Regina Sibilla, personaggio che si inerpica in quell’anno fino alla grotta per poi sparire nel nulla, senza mai più tornare indietro? Tutte illazioni, ovviamente: probabilmente non sapremo mai cosa tale data avesse voluto indicare e, soprattutto, chi la tracciò più di 600 anni fa. Sempre se venne tracciata davvero nel 1378. Fatto sta che, come la si voglia vedere, l’incisione rappresenta un grande patrimonio demo–antropologico per il territorio piceno, che sta ad indicare come la Sibilla sia stata frequentata sin da tempi remoti. Non molti conoscono l’esistenza di questa traccia, i più passano vicino alla grotta durante le loro escursioni senza averne la minima idea. Qualcuno però ha dimostrato di conoscerla, incidendo, circa a metà luglio, l’acronimo VITRIOL subito sotto, che sta per Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem.
Il motto alchemico invita il viandante: “Ispeziona l’interno della terra, purificando troverai la pietra nascosta”. L’artefice, credendo di averla trovata questa pietra, ha pensato bene di lasciare un segno del suo passaggio e della sua scoperta. Oltre a condannare l’atto, bisogna chiedersi il perché. Perché qualcuno dovrebbe, in modo intenzionale, arrivare a danneggiare una testimonianza così antica del nostro passato? Perché non si ha più rispetto del passato, o meglio, perché il passato stesso non riesce più a ergersi come fondamento del nostro presente e, soprattutto, del nostro futuro? Gesti simili, che vanno ovviamente condannati, possono tuttavia stimolarci a pensare, a chiederci cosa è cambiato in noi, e verso cosa ci stiamo dirigendo. “La tradizione è custodia del fuoco, non adorazione della cenere“, recita una bella massima di Gustav Mahler, compositore e direttore d’orchestra austriaco vissuto a cavallo tra Ottocento e Novecento. Ma custodire il fuoco, si sa, è faticoso: va alimentato continuamente, in esso va infusa continuamente energia, affinché possa continuare a esistere e a scaldare. Allora dobbiamo chiederci, e invitare gli altri a fare altrettanto, come si fa a seguire le tracce degli dei fuggiti nella notte del mondo, citando il filosofo esistenzialista Martin Heidegger, il quale precisa che
Non solo gli Dei e Dio sono fuggiti, ma si è spento lo splendore di Dio nella storia universale. Il tempo della notte del mondo è il tempo della povertà perché diviene sempre più povero. È già diventato tanto povero da non poter riconoscere la mancanza di Dio come mancanza […]. Esser poeta nel tempo della povertà significa: cantando, ispirarsi alla traccia degli Dei fuggiti.
Il nostro tempo è oltremodo povero perché, purtroppo, non consapevole di sé. Se riflettiamo, il gesto di incidere il proprio nome, il proprio motto o le proprie iniziali su di una roccia di una montagna è sempre lo stesso: lo era nel Trecento, lo è oggi. Tuttavia, per chi è dotato di una certa sensibilità, un atto simile rappresenta uno sfregio nei confronti di una preziosa testimonianza da tramandare ai posteri.
Ma gesti di questo tipo, a quanto pare, non risparmiano i luoghi più appartati e meno “famosi”: anche il canyon di Sasso Spaccato, nel Monte Ceresa, è stato sfregiato da scritte di escursionisti della domenica, a ridosso di quella che è stata un’antica sepoltura ottocentesca, dove a testimonianza di intere vite spezzate da una delle ultime epidemie di colera sono rimasti dei nomi incisi nella roccia e, per i più fortunati, delle croci.
Forse è per questo che siamo nel tempo della povertà: il nostro è l’Impero della Tecnica, dell’effimero e del superfluo, le tracce che lasciamo quotidianamente nel magico non-universo di internet saranno flebili, mentre saranno durature le loro conseguenze. Riflettiamoci: potranno esserci altre decine o centinaia di grandi scultori da qui alla fine dei tempi, ma Canova non tornerà più. Non tornerà più il viandate trecentesco sulla Sibilla. La statua rotta rimarrà, la foto scattata sparirà, morendo probabilmente insieme allo smartphone con cui è stata realizzata. Non c’è più niente di rituale, e quindi sacro, che ammanta i nostri facili e comodi gesti: un‘ascesa al monte non ha più niente di simbolico e di consapevole della potenza dell’atto che si sta compiendo. Non l’ha percepita l‘artefice della scritta Vitriol, mentre lo aveva fatto l’altrettanto sconosciuto autore che, secoli fa, si è accinto a sfidare l’ignoto, proveniente da chissà dove e diretto verso lidi altrettanto sconosciuti. O almeno, abbiamo bisogno di pensarla così, immaginando e sperando che, per certi versi, il passato sia stato molto meno prosaico e banalmente rozzo del nostro presente.