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Cosa intendiamo per fabbrica, per stabilimento produttivo? Chi sono gli operai, oggi? E abbiamo inteso l’esatta portata di questa crisi? Le domande potrebbero continuare all’infinito: quali sono le logiche che inducono una multinazionale, solida e in attivo, a chiudere uno dei suoi siti? Cosa può fare la politica per difendere il lavoro?
Domande a cui pochi sanno rispondere. Il nostro tessuto industriale ridotto a brandelli va dritto verso una desertificazione che, se non evitata, produrrà effetti devastanti sulla tenuta sociale del territorio. Ma alcune certezze rimangono: la profusione di solidarietà che in questi casi non risparmia nessuno – compreso chi scrive – e il mellifluo “cordone umanitario” che si forma intorno agli operai senza lavoro. E poi? Chi aiuterà queste persone a reimpiegarsi? Chi sarà accanto a loro nella dura battaglia che li aspetta? L’auspicio è che chi oggi si sente vicino agli operai della Prysmian, non smetta di regalare una parola di conforto anche quando la battaglia si farà più cruenta, quando accanto agli striscioni di protesta ci saranno famiglie che dovranno far fronte alle inevitabili difficoltà economiche.

La politica e la società civile, allora, dovranno fare i conti con le proprie responsabilità, svestirsi del proprio ruolo e affrontare la realtà. Studiare, analizzare, trovare una soluzione. La soluzione.

Il problema è che non c’è più contaminazione con il mondo produttivo, immersi come siamo in logiche di mercato e finanziarie, preferiamo spostarci verso parole come “internazionalizzazione”, “servizi”, “terziario avanzato”, spesso senza conoscerne il significato. Ci riempiamo la bocca di “innovazione” senza trovare la strada giusta per applicarla.
Chi lavora in ciò che è rimasto del settore produttivo, manifatturiero, più in generale industriale e tecnologico italiano, semplicemente, non ha voce in capitolo. Eppure, sono loro che ancora alimentano il Pil di questo Paese, o comunque, buona parte di esso. Ma come lavorano, cosa è effettivamente cambiato dal modello fordista del passato, nessuno lo sa, e in questo Paese non si è ancora affrontato un serio discorso sul futuro dell’industria italiana. Questo mondo è anche mio, ma non ne faccio parte; vivo l’impotenza di chi non ha gli strumenti per tradurre le criticità interne al sistema, il pudore di chi non si è mai sporcata le mani con quel lavoro. Chi mi è accanto è lì, ogni giorno, col suo grado di soddisfazione e frustrazione. Rinchiusi otto ore in quegli scrigni preziosi grazie ai quali l’Italia può vantare un posto importante nella classifica mondiale dei Paesi più industrializzati e sedersi nei tavoli che contano.
Forse è giunto veramente il momento di restituire la voce a chi ci aiuta, con il suo lavoro e le sue tasse, a vivere meglio. Così la nostra solidarietà avrebbe più senso.

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