“Still life” comunemente viene tradotto come natura morta e si intende la tecnica fotografica che consiste nel riprodurre gli oggetti inanimati. Ma la traduzione letterale parla di qualcosa in cui si trova “ancora vita”.
Il film di Uberto Pasolini, cognome ingombrante ma nessuna parentela con lo scrittore e regista Pierpaolo, parla proprio di vita, o meglio della vita attraverso la presenza naturale della morte.
Lo scorrere dei giorni tutti uguali del protagonista John May, impiegato municipale che si occupa delle persone morte in solitudine, viene scandito dalla lunga successione di volti e immagini di chi non ha nessuno accanto al momento in cui il respiro si spegne. John si dedica quindi con dedizione quasi eccessiva alla ricerca di una traccia nel passato dei defunti, qualcuno che abbia a cuore quanto lui l’importanza del saluto a chi se ne va.
Ma John è un uomo solo, così come le anime che lui stesso accompagna. Finché l’ultimo caso prima di venire licenziato lo porta sulla strada di Kelly, figlia abbandonata di un alcolista. Lei sarà lo spunto per cercare nuova luce in una vita ormai spenta nel grigiore.
“Mi affascina il mistero delle vite, che si dipanano lungo la scacchiera di giorni e strade, foto scolorite, memorie di vent’anni o di una sera”.
Così cantava Francesco Guccini dieci anni fa e il senso di quanto descritto nelle parole del cantautore sembra pervadere il clima fatto di dramma e malinconica ironia del film.
Lo stesso regista Pasolini ha dichiarato in un’intervista di aver letteralmente rubato molte situazioni da scene di vita vera, e di aver scelto come titolo Still life proprio per la versatilità della sua accezione, che racchiude in sé la duplice valenza di vita e morte.
Si percepisce nella sua opera la delicatezza dello sguardo verso l’intimità delle relazioni, e ciò che ne emerge è un affresco commovente sulla precarietà dell’animo umano.
REGIA: Uberto Pasolini
ANNO: 2013
GENERE: Drammatico
DURATA: 87 minuti