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Lo ammetto, il primo capitolo di questo romanzo mi aveva imbrogliato e l’ho mal pre-giudicato. Al terzo mi ha conquistato. Questo libro non segue le regole, parla di punizione, di quella che fa più male, e di una giustizia da rendere al di fuori della morte. Racconta di come, in una calda primavera jesina, qualcuno applica un dantesco contrappasso contro i “peccatori”, per dare un minimo di pace a chi rimane solo dopo il male, a chi non può affidarsi ai tribunali per avere soddisfazione, perché il dolore vissuto non può essere ripagato da anni di prigione, e soprattutto perché la sola fede non permette di rimettere ogni cosa al posto giusto.

Quel qualcuno è Bruno Pedrini, un’ombra che manovra altre ombre; è un dio terrestre che giudica le colpe e imprime sentenze; è anche un angelo caduto condannato egli stesso per le proprie colpe, e deciso a scontarle fino in fondo, senza facilitazioni. La sua kryptonite sono le graminacee, la sua consolazione la dolce badante Maria, la sua nemesi il commissario Vanessa Zanca. Ma il vero nemico non è all’esterno, è più subdolo e inquietante, è Fauce, il suo compare, il suo alter ego, la sua “fame” di giustizia, un Mr. Hyde forse immaginario forse reale ma altrettanto pericoloso. Alessandro Morbidelli con una scrittura fluida e piacevolissima, senza mai cadere nel retorico o nello stucchevole, con una buona dose di ironia, dipinge un personaggio controverso ed amabile, di cui siamo pronti a seguire innumerevoli gesta.

Iniziamo con una domanda personale, per una cosa che mi ha molto divertito: una tua biografia dice di te che “scribacchi per dispetto”. In realtà la scrittura per te è una passione e si capisce da come scrivi, non è vero? “Mi diverte molto leggere o incontrare autori che si considerano posseduti dal demone della scrittura. Ti guardano con occhi spiritati, di chi la sa lunga e, paradossalmente, non la sa raccontare… E anche quando chiedi loro cose tipo: “Che ore sono?”, sono subito pronti a rifilarti il concetto che loro sono “scrittori”. Poi, se chiedi loro quanti libri leggono in un anno, ti rispondono: “Non ho tempo di leggere, io scrivo”. In verità, la mia prima passione è la lettura e posso affermare che farei sicuramente a meno di scrivere, ma che al tempo stesso non posso farne a meno, perché scrivere è un po’ la mia terapia. Le brutture, i grigi e i neri, tutto quello che colpisce la mia sensibilità, io lo trasformo in parole, lo butto lì. Anche le cose belle, per carità. Ma più che altro per me scrivere è elaborare. E allora è vero che lo faccio “per dispetto”. Piuttosto che tirarti un mattone in testa, ti faccio diventare un personaggio di quello che scrivo, così io non finisco nei guai, tu ti riconosci, perché quando mi leggi ti riconosci, e ti becchi il mio dispetto, ma soprattutto io so dove buttare il male. Perché la vita si cambia, ma le pagine dei libri no, quelle rimangono uguali. Sia in entrata, leggendo, che in uscita, scrivendo”.

Cosa distingue un bravo scrittore da un comune scrittore? “Un bravo scrittore è un grande lettore, uno che non si fossilizza su un genere letterario piuttosto che su un altro, uno che quando legge trova e quando scrive cerca. E poi è uno che fa nascere quello che scrive dall’esperienza di ciò che ha vissuto. Sempre”.

Il tuo libro è considerato il primo esempio di Noir Marchigiano, grandiosa prospettiva e grandissima responsabilità… “Che sia una grande responsabilità è innegabile. Per quanto riguarda il discorso di prospettiva va fatta una premessa: il panorama letterario marchigiano non è così specifico come si potrebbe pensare. Di fatti di cronaca nera siamo più che saturi anche noi figli di Leopardi e quindi scrivere noir diventa una conseguenza. Alla base di ogni noir deve esserci il criterio di veridicità, lo specchio dei mutamenti sociali, legati a una quotidianità a tutto tondo, e quando un territorio, il tuo territorio, inizia a darti degli spunti, del materiale su cui ragionare, scopri che non sei salvo, che anche sotto la tua barchetta c’è un mare profondo e che finire ammollo è un attimo. E questo alcuni bravi autori marchigiani lo stanno capendo”.

La visione della giustizia che Bruno Pedrini, il tuo protagonista, propone ed anche il suo concetto di bene e male, sono abbastanza controversi… “Quando mia nonna ascoltava le notizie del Tg, soprattutto quelle di cronaca nera, diceva tra i denti: “A quello, un pezzettino alla volta taglierei!”. Ecco, questa per me è l’onestà. Ma alla visione grandguignolesca di mia nonna io preferisco una rivalsa che inviti alla riflessione, che educhi alla memoria del dolore, che sia anche spunto per l’ammissione di colpa e, magari, per un buon ravvedimento. Per questo motivo non mi stancherò mai di dire quanto sia contrario alla pena di morte. Bruno Pedrini è d’accordo con me”.

Bruno ad un certo punto della storia capisce che ciò che fa lo rende paragonabile a Dio, un Dio sulla Terra però, che non aspetta l’aldilà e il Giudizio finale per punire o premiare. Ma Bruno vive anche in un suo Inferno personale, già condannato o auto-condannato. Sai se qualcuno si è sentito offeso da questa esegesi religiosa? “Ti racconterò un doppio aneddoto molto buffo. A una delle prime presentazioni del romanzo, un sacerdote mi fece i complimenti per il libro, ringraziandomi per avevo reso la figura di don Michele, a detta sua, umana, fragile e sincera. Qualche tempo più tardi, venni a sapere di una polemica nata in seno a una manifestazione letteraria presso un piccolo comune dell’entroterra a cui ero stato invitato come ospite d’onore. Un consigliere comunale pensò bene che bastasse dare uno sguardo alla copertina del mio romanzo per potermi definire “autore anticlericale”. A parte queste esperienze, una delle quali oserei definire “talebana”, credo che la questione religiosa legata al romanzo sia molto importante. Non a caso, la vicenda prende spunto dal personaggio di don Michele che, sul letto di morte, rinnega il messaggio fondamentale imposto dal suo abito e torna uomo “umano, fragile e sincero”. Bruno, invece, è l’ago della bilancia, quello che si mette in moto per placare una propria fame di giustizia che sicuramente è imperfetta, dettata dalla soggettività e, perché no, contestabile. Come dici tu, si confronta con il proprio inferno personale, la malattia di sua nonna, ogni giorno, ma è il desiderio che nasce da dentro quello che rende il suo agire denso di sacralità. Sa di essere un uomo da cui dipendono le fortune degli altri, ne è perfettamente consapevole e questo è per lui quello che gli spinaci sono per Braccio di Ferro“.

Parlando personalmente, io sono una grande appassionata di fumetti e supereroi, come si evince dalla nostra rubrica Nuvole d’Inchiostro: Bruno Pedrini è nato anche ispirato dalle gesta degli “eroi in calzamaglia”? “Anche se questa riflessione non è stata propedeutica alla stesura del romanzo, non posso negare che alcuni archetipi del genere “supereroico” siano riconoscibilissimi: il mezzo dell’eroe, in questo caso una Panda bianca, gli amici, l’antagonista, gli amori impossibili, il suo agire di nascosto. Ma, come ti dicevo, sono elementi che se analizzati a fondo possono essere ritrovati nelle vite di ognuno di noi, solo che Bruno ha segreti un po’ più importanti dei nostri. Anche io mi ritengo un grande appassionato di fumetti e se per certi versi riconosco a Bruno un carattere dissacrante stile Gath Ennis, con qualche romanticheria in più, e una voragine interiore che successivamente ho ritrovato nel personaggio di Ryo Narushima in Shamo della coppia Hashimoto-Tanaka, di sicuro non posso dire che sia un uomo d’azione, anzi, il più delle volte manda avanti gli altri, limitandosi a tirare i fili. Se proprio dovessi dare un physique du rôle a Bruno, non userei di sicuro una calzamaglia, piuttosto mi piace immaginarmelo come un mix di Elio Germano e Valerio Mastandrea, anche se i miei amici sono pronti a giurare che somigli parecchio all’autore”.

Autore: Alessandro Morbidelli

Titolo: Ogni cosa al posto giusto

Editore: Robin Edizioni, 2010

Collana: Il luoghi del delitto; La Valle di Caino

Prezzo: 9.00 €