Si può essere madre in tanti modi e non è detto che si scelgano i migliori. In “Mia madre è un fiume” (Elliot Edizioni) Donatella Di Pietrantonio rompe il vetro di silenzio nel rapporto tra una madre e una figlia, un legame tanto fragile quanto complesso. Quando Esperia viene afflitta da una malattia inesorabile che le mangia i ricordi, sua figlia decide per la prima volta di prendersi cura di lei e accudirla raccontandole la storia della sua vita. La narrazione non ha nulla di taumaturgico perché Esperia è condannata a non ricordare più niente, neanche il suo nome, ma consente a sua figlia di sviscerare la storia della sua famiglia e l’origine di un rapporto incompiuto per sempre.
In un Abruzzo metafisico, accoccolato ai piedi del suo massiccio principale, si susseguono ricordi drammatici, festosi, bizzosi attraverso l’epopea di una famiglia contadina. Il racconto della donna non lascia margine alla redenzione dagli errori del passato; ghermisce, piuttosto, con schiettezza unita ad un sentimento di tenerezza e violenza, il velo di ipocrisia rimasto impigliato nelle convenzioni familiari. Ne esce fuori un romanzo potente, che tocca i nervi scoperti delle nostre identità di figli e genitori, in una trama che si avvale del lucore della Natura e dei suoi elementi, quasi ad ammonirci che tutti noi proveniamo da lì. Appunto, mia madre è un fiume.
Inizierei dal titolo, Mia madre è un fiume. Ho subito accostato il senso della frase allo scorrere lento di un fiume, alla sua ripetitività, ma anche alla capacità continua di rigenerare le sue acque. Poi nella parte finale del libro, il lettore scopre i modi in cui la madre può essere un fiume, ma anche un albero… perché ha scelto il fiume per dare il titolo al suo romanzo? La Natura è stata fondamentale per ispirare la sua scrittura? “Il fiume è un’immagine archetipica, capace di condensare in sé molti significati. La madre è il fiume che non è mai lo stesso, diverso ogni volta che la figlia vorrebbe bagnarsi in lei, a partire dall’infanzia fino alla maturità che corrisponde alla terza età della madre. Fiume era anche la chioma materna, che la bambina sognava di mangiare come zucchero filato bruno per poter sentire finalmente la mamma dentro di sé. Dalla bocca della madre usciva un fiume di parole, che ora va perdendo nella malattia, e resta un letto bianco, asciugato, dove i sassi gettano ombre per terra. La Natura è stata importante per me”.
La letteratura e la cronaca quotidiana hanno un vasto repertorio di legami difficili tra padri e figli, spesso declinati in violenza. Meno affrontati quelli tra madri e figli. La difficoltà risiede in una maggiore complessità del rapporto o forse esiste ancora una sacralità della figura materna che evita di metterla in discussione? “Quella con la madre è la relazione primaria, modello di tutti i legami futuri. Credo che sia argomento complesso e inesauribile, ma può esserci anche una resistenza di tipo psicologico nell’affrontarlo, specialmente se si tratta di andare poco oltre lo stereotipo della mamma buona e amorevole per trovare anche quella che ci ha fatto soffrire, non volendolo. La madre è anche un tabù“.
Nella malattia della madre, la figlia ricompone il rapporto tra le due attraversando diverse stagioni di vita, facendo emergere le incomprensioni irrisolte, le vicende nascoste, gli abbracci mancati. Credo che il suo romanzo sia anche un monito a non lasciar nulla di intentato negli affetti e nei sentimenti perché si rischia di perdere improvvisamente la possibilità di sanare le ferite del passato. È così? “È così. La figlia non ha mai cercato un confronto aperto con la madre, per paura, per pigrizia, forse anche per superbia. Ma non aveva rinunciato, semplicemente rimandava la “resa dei conti” a un tempo indefinito, sempre spostato in avanti. E invece a un certo punto interviene la malattia neurodegenerativa della madre a togliere ogni possibilità di faccia a faccia decisivo riguardo a reciproci sentimenti e azioni passate. La figlia resta con un pugno di mosche, impotente, si sente persino, ancora una volta, tradita. Dice, assurdamente, che la madre le è sfuggita nella malattia”.
Il suo è anche un romanzo sociale sull’evoluzione di un’Italia contadina che le nuove generazioni non conoscono ma che ancora palpita in molte tradizioni ed abitudini familiari. Credo che il fascino del suo libro risieda anche nell’Abruzzo vigoroso, intenso e magico della sua infanzia. È stato difficile intrecciare un rapporto intimistico con realtà appartenenti alla Storia comune? “No, perché la Storia comune è lo sfondo naturale delle vicende individuali, è il contenitore necessario delle vite dei protagonisti. Nessuno di loro sarebbe quello che è se non fosse nato quando e dove è nato, non la madre avara di carezze, non la figlia rancorosa. Il loro ambiente originario le ha in larga parte determinate nei comportamenti. Perciò la Storia e l’Abruzzo si sono imposti nella narrazione anche oltre le mie intenzioni, con la forza delle radici”.
Come ultima domanda vorrei che lei mi togliesse una curiosità. I nomi delle protagoniste femminili del libro sono inconsueti ed originali. Perché ha fatto questa scelta? “Volevo consegnare alla memoria quei nomi un po’ eccentrici che nel dopoguerra le famiglie contadine impartivano a volte alle figlie femmine, quasi a dar loro un’importanza che le modeste condizioni economiche spesso non consentivano. Ho fatto un po’ di ricerca all’anagrafe ed eccoli lì, tutti nomi ormai estinti”.