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Attraverso L’arco di Bice, Cinzia Carboni è riuscita a ricostruire la Storia degli ultimi centocinquanta anni di San Benedetto del Tronto. Con stupefacente acribia, l’autrice affida la sua scrittura alla testimonianza di una celebre figlia della città: Beatrice (Bice) Piacentini Rinaldi, prima poetessa in vernacolo degli inizi del 900. È proprio Bice Piacentini l’assoluta protagonista del libro, uno spirito la cui presenza riempie la godibile narrazione in cui vengono richiamati alla memoria gli avvenimenti più importanti e i personaggi che hanno contribuito a sviluppare la comunità sambenedettese. Bice Piacentini è accompagnata in questo straordinario viaggio da una ragazza nata nella nostra epoca, Jessica, che a seguito di un incidente avrà modo di conoscere la scrittrice e dare un nuovo significato alla propria vita.

 

Un libro dall’impostazione insolita ma non scontata, permeato da una profonda dimensione spirituale, in cui i personaggi relegati nell’oblio collettivo tornano a farsi carne per restituire ai lettori moderni la memoria di un passato in attesa di essere compreso. Carboni ci regala una prova di amore per la sua città e per Bice Piacentini, di cui scopriamo lo straordinario talento letterario attraverso i suoi versi in dialetto e le sue opere teatrali. E poi c’è l’arco, quella struttura architettonica in cui Bice troverà sempre un luogo per rifugiarsi e guardare oltre l’orizzonte della caducità umana.

 

In questo libro Bice Piacentini è la protagonista, la narratrice in prima persona della sua biografia; una vita intensa che si intreccia con gli ultimi centocinquanta anni di storia di San Benedetto del Tronto. Jessica è l’interlocutrice privilegiata e la destinataria del racconto. La prospettiva è insolita poiché la ragazza è in coma mentre vive questo viaggio a ritroso nella Storia. Perché ha fatto questa scelta? “La storia è sempre importante, di chiunque e di qualsiasi periodo storico si tratti, ma per renderla utile ed interessante nella quotidiana attualità di chi ne viene a conoscenza, è necessario esaminarla nel suo contesto storico ma anche raffrontarla con il presente. La scelta di affiancare a Bice Piacentini una giovane donna dei nostri giorni, ha creato un ponte ideale attraverso i secoli e tra le generazioni che si sono succedute e mi ha permesso di portare il lettore a “vedere” attraverso gli occhi di Jessica, com’era davvero la vita di Bice e della nostra San Benedetto per più di ottant’anni, esattamente 82, gli anni della nostra amata poetessa. Mi hanno detto che è stata un’idea geniale, ma a me è venuta in mente in modo semplice e spontaneo, quasi inconsciamente suggerita”.

Bice Piacentini è stata una donna all’avanguardia, una scrittrice che ha reso poesia il vernacolo sambenedettese. Le nuove generazioni cosa possono apprendere da questa figura e qual è, secondo lei, l’approccio che un giovane dovrebbe avere nei confronti del proprio dialetto? “Bice Piacentini è stata una donna molto evoluta per i suoi tempi. È nata nella metà dell’800, in un periodo storico in cui le donne non potevano scegliere e decidere neanche della propria vita. Lei è stata fortunata ad avere alle spalle una buona famiglia ed ha potuto istruirsi, cosa già rara in quei tempi, soprattutto per le donne. Il resto lo deve al suo carattere, aperto, gioviale, altruista e al fatto che metà della sua vita l’ha vissuta a Roma. Aveva tanto amore per la sua Sambenedetto quanta obbiettività per guardarsi intorno con la necessaria ironia, che riusciva a cogliere in ogni situazione, anche la più drammatica. È stata la prima (solo dopo di lei sono venuti Spina e Vespasiani) a lasciarci scritta la nostra storia, raccolta dal vivo per le strade e tra la gente del paese. Senza di lei quel periodo storico sarebbe andato perso per sempre, così come il dialetto che nei decenni successivi, con l’avvento della scuola, si è italianizzato inesorabilmente. Le nuove generazioni non dovrebbero perdere il contatto con le loro radici e utilizzare il vernacolo per ritrovare gli usi, le abitudini e le tradizioni che ci hanno portato ai nostri giorni. Il romanzo, nel quale ho inserito diversi apporti in dialetto, dovrebbe servire anche a questo”.

L’Arco di Bice è anche un romanzo storico in cui viene ricostruita la trasformazione della città di San Benedetto del Tronto. È stata una ricerca impegnativa? E cosa ha scoperto della sua città che non conosceva? “È stata una ricerca molto impegnativa alla quale ho dedicato tre anni, ma nella realtà era da sempre che raccoglievo documenti e fotografie su S. Benedetto. Il problema principale è stato ricostruire la vita della Piacentini, della quale era rimasto ben poco e quel poco era tra S. Benedetto e Roma. Purtroppo della sua famiglia originale non esistono discendenti e trovare testimonianze dirette è stato davvero difficile. Ho scoperto tante cose sulla mia città che non conoscevo (e penso che non le conoscano ancora troppi sambenedettesi), ma ciò che mi ha più colpito e ha cambiato completamente il modo di comprenderne l’essenza, è stato capire quanta sofferenza, quanta ignoranza e quanta povertà ha dovuto subire questo popolo. Non che in altre parti d’Italia un secolo fa si stesse molto meglio ma qui, se possibile, si stava ancora peggio. Tutto è cambiato solo dopo l’avvento delle comunicazioni (treno e automobili) e quindi con l’arrivo del turismo. Il benessere ha cambiato la vita della comunità sambenedettese in pochi decenni, ma la cultura non ha viaggiato di pari passo. Solo queste ultime generazioni di imprenditori turistici potrebbero davvero fare la differenza, perché hanno le conoscenze e la capacità per offrire quella qualità che ci manca. Però ai sambenedettesi, alla luce della storia che “L’arco di Bice” racconta, va riconosciuto il grande merito di aver fatto progressi inimmaginabili in pochi decenni e, visti i risultati raggiunti, grande merito ai nostri nonni e ai nostri genitori”.

Ho riscontrato una centralità fondamentale della presenza femminile in questo romanzo. È stato un suo desiderio personale voler ricordare alcune figure storiche della sua città oppure durante l’elaborazione del suo lavoro ha capito che le donne hanno effettivamente svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo della comunità? “Le donne nella nostra città hanno sempre svolto un ruolo fondamentale. Andando indietro nel tempo, era affidata solo a loro la vita sociale e l’organizzazione familiare. Gli uomini erano sempre a mare o ad ubriacarsi in osteria. Infatti Bice Piacentini sceglie sempre donne protagoniste dei suoi sonetti, raramente parla di uomini. Indubbiamente nel romanzo emerge l’esaltazione dei personaggi femminili, ma non è stata una mia scelta, le donne sono emerse dalla storia più di tante figure di uomini che, sulla carta, sembravano protagonisti assoluti. Sicuramente ci sarà un perché!”.

In questo romanzo ho avvertito una forte dimensione religiosa e spirituale. Anche la morte è una componente imprescindibile della narrazione, così come l’affermazione della vita. L’ho trovata una scelta coraggiosa perché oggi, come sappiamo, certe tematiche tendono a essere rimosse dall’immaginario collettivo. Sono “i punti di vista diversi” richiamati più volte dalla Piacentini. Ne deduco che il suo romanzo è stato scritto anche per indurre il lettore a una riflessione più intima sul senso della vita. La mia interpretazione è giusta? “Non è facile mettersi nei panni della Piacentini, una donna che ha conosciuto il dolore della morte prima da adolescente per la perdita del padre, poco dopo per la prematura scomparsa del fratello, poi ha perso il marito ed infine anche l’unico figlio Nino. Questo libro l’ho scritto poco dopo la scomparsa di mio figlio Alessandro, in un momento della mia vita nel quale ero perfettamente in grado di capire ed entrare in quel tipo di dolore. Mi sono sentita subito in grande sintonia con lei, che sembrava essere arrivata da me proprio per guidarmi in questa difficile impresa. È stato subito chiaro che entrambe avevamo l’esigenza di non perdere quest’occasione per dare ai lettori un preciso messaggio sull’importanza della vita, partendo dall’accettazione del dolore, della sofferenza e anche della morte, come imprescindibili tappe dell’esistenza che, elaborate e affrontate nel giusto modo, sono portatrici di modelli di valori che possono migliorare oltre se stessi anche gli altri. “L’arco di Bice” è un viaggio, nella storia e anche dentro di noi”.