Classe 1989, giovane e acuto. Dopo una laurea triennale sul rapporto poetico tra Virgilio e Seamus Heaney, Alberto Fraccacreta continua i suoi studi classici all’università di Urbino. Con un gruppo di amici fonda l’associazione culturale “La resistenza della poesia” e con “Uscire dalle mura” segna una pagina della poesia contemporanea.
Il libro percorre l’intera città di Urbino, attraversa le strade e i viottoli della cittadella universitaria, fino a riepilogare ogni composizione con riflessioni sull’esistenza. Sembra quindi che Urbino rappresenti il centro nevralgico della tua creatività; che ruolo occupa Urbino per la tua creatività poetica?
Urbino è per me la città dell’anima e dello spirito. Il suo scenario – le cui peculiarità ho disperatamente cercato di definire nella silloge – è oltremodo diverso dal paesaggio del luogo in cui sono nato, San Severo in Puglia. La terra riarsa dalla calura pomeridiana, gli ulivi pregni, la piana che accoglie un orizzonte certo: natura che definirei tragica, alla greca, distante anni luce dalla lirica dei colli bombati e polverosi, dalle cime acuminate del Montefeltro.
Avresti potuto scrivere una raccolta poetica simile in altre circostanze o hai trovato in Urbino la summa della natura e della meditazione necessaria al “mestiere del poeta”?
No, non avrei mai scritto nulla di simile. Da questo punto di vista, le mura e la natura di Urbino hanno confermato di essere un destino, una via da seguire in quanto unica via poetica possibile.
Hanno scritto che hai raccolto l’eredità letteraria di Umberto Piersanti, che della descrizione della natura e soprattutto del paesaggio urbinate ne ha fatto un punto di forza che lo hanno affermato nel panorama letterario contemporaneo. Le tue descrizioni nascono dall’osservazione del vivere la città e da questo vivere la città scaturisce altro, una riflessione.
La riflessione principale si collega ancora alla discrepanza di paesaggi, che si è rivelata essere anche discrepanza di pensiero: seguendo la definizione dello scrittore Albert Camus, credo che il mio – e quello dei miei consimili terùn – sia un pensiero meridiano, legato fin nelle viscere alla cappa d’afa delle due pomeridiane. Il pensiero del Montefeltro è, invece, d’incanto, sogno, visione, popolato di folletti in stile Ariel. L’amalgama di disperazione e abbaglio ha dato vita ad un versificare perennemente in contatto col trascendente e con la sua promessa di salvezza.
Ci sono momenti intimi e personali che, invece, t’invitano a consacrare un luogo, come un qui ed ora preciso del ricordo?
Sì, ma il pudore non mi permette di parlarne se non in versi.
Qual è la poesia che ti fa uscire dalle mura, varcare le sue porte e girare l’angolo del Mercatale? E soprattutto vuoi uscire da Urbino o preferisci continuare a rincorrere le salite e a cullarti nelle discese accoglienti?
Vorrei tanto uscirne! Purtroppo queste vie claustrofobiche, queste aorte pulsanti, queste arterie del cervello mi legano ancora alle mie debolezze e alle mie piccole miserie, mentre, dalla feritoia d’un bastione, riesco a intravedere uno scenario incontenibile che chiama all’uscita finale.
Hai mai sentito il bisogno, in generale, di uscire dalle mura, andare oltre, altrove? O forse l’hai già fatto dedicando una silloge alla tua città universitaria che ti ha adottato in questi anni accademici piuttosto che al tuo paese natale?
L’altrove è l’incontro con l’Altro, con il tu generico e femminile che – ahimè – ad un certo punto deve, e infatti si storicizza. Credo che, nella poesia italiana di ogni tempo, ci sia una sorta di tensione irrinunciabile alla donna, al mistero della sua perfetta alterità, che la rende l’intermediaria privilegiata del rapporto tra l’uomo e il divino, anche in tempi di nichilismo e trasgressione sfrenata come il nostro. Il volto di donna, col suo comando di bellezza, diviene così l’unico paesaggio reale, il luogo dove davvero accade qualcosa di decisivo per l’uomo.
Domanda retorica, ma cosa è per te Urbino? Oltre i sospiri e le rivelazioni.
È “una strada, qualcosa che cresce quanto più si allontana” (A. M. Ripellino). Il suo splendore senza tempo è, inoltre, una delle ‘prove ontologiche’ di Sant’Anselmo.
Ora, passiamo a una carrellata di domande canoniche per un editore emergente o esordiente come oggi si suol incasellare un giovane che vede pubblicata la sua prima raccolta, anche se umilmente e personalmente leggendo i tuoi versi mi sei sembrato molto più poeticamente maturo di molti componimenti che compaiono e scompaiono nel marasmo letterario di oggi.
Che tipo di rapporto hai avuto, hai e avrai con la tua casa editrice?
Non so se ci saranno rapporti futuri con la casa editrice (Raffaelli editore), ma la ringrazio sinceramente per l’opportunità e il sostegno. Inoltre, senza voler apparire ruffiano, credo davvero che il suo spirito editoriale – ‘illuminato’ – sia una speranza per i giovani scrittori italiani.
Cosa ne pensi dell’editoria a pagamento?
Quando non ti pubblicano Il Gattopardo e Il Maestro e Margherita per motivi ideologici o rifiutano la Recherche perché “nelle prime trenta pagine il protagonista non fa niente, se non girarsi e rigirarsi nel letto”, penso che tu, per il bene dell’umanità, debba pagare per pubblicarlo!
Vedi un futuro per l’ebook in Italia?
Vedo un passato e una morte per la poesia.
Quanto conta e condividi la multimedialità e la diffusione tramite etere della letterarietà al giorno d’oggi?
Conta molto. Ma per quanto riguarda l’attività poetica, creerà più mostri della parola, più muflonica autocelebrazione e più narcisismo digitale.
Cosa cambieresti della letteratura e, soprattutto, della poesia di oggi?
Cambierei l’uomo, se fosse possibile.
Alla prossima pagina.
USCIRE DALLE MURA – ALBERTO FRACCACRETA – RAFFAELLI EDITORE